Post più popolari

Concordi con le mie proposte politiche?

Pagine

Post più popolari

Post più popolari

Visita a POLENTA (Forlì)

Visita a POLENTA (Forlì)
ONORE A Giosuè Carducci.

Cerca nel blog

venerdì 10 maggio 2013

[asud.informa] 10 maggio, assemblea azionisti Eni - "Eni's way? No, thanks!"

  SUD  informa


In occasione dell'assemblea degli azionisti Eni, tenutasi questa mattina a Roma, condividiamo l'articolo di Marica Di Pierri per A Sud, pubblicato oggi su Huffington Post Italia.

10 maggio 2013

Eni's way? No, thanks!

Tra scandali giudiziari, nuovi fronti estrattivi e politiche energetiche tutt'altro che sostenibili oggi 10 maggio l'assemblea degli azionisti Eni a Roma.


Il cane, si sa, è il miglior amico dell'uomo, a meno che non abbia sei zampe anzichè quattro e non sia il simbolo della più grande multinazionale nostrana: l'Eni.

Tra le prime 10 compagnie petrolifere del mondo, l'Eni produce petrolio, gas e energia in circa 85 paesi ed è la trentesima impresa al mondo per fatturato secondo la statistica di Forbes.

L'Eni nasce come ente pubblico nel 1953 sotto la guida di Enrico Mattei, diventa s.p.a. nel 1992. Dopo la tornata di privatizzazione che prende il via nel 1995, lo Stato conserva il 30 percento delle azioni del colosso petrolifero, i cui dividendi vanno dritti nelle casse del Ministero del Tesoro.

Una montagna di soldi, ricavati da attività estrattive, di lavorazione e distribuzione di idrocarburi. Viene da sè che l'Eni ha una grande influenza sulle scelte energetiche del nostro paese. Non è un caso che, nonostante la strategia europea sia tra le più avanzate e predisponga strumenti per una azione efficace di contrasto alle emissioni di gas serra, l'Italia abbia varato nell'agosto passato una Sen - Strategia energetica nazionale tutta basata sul rilancio di gas e petrolio piuttosto che sulla transizione verso un modello energetico basato sull'efficienza e sulle rinnovabili.

Gas e petrolio, ovvero il core business del cane a sei zampe. Che significa: investire nell'aumento dei livelli estrattivi (ove già attivi) e nell'ampliamento dei fronti di estrazione.

Come ad esempio in Val D'Agri (Basilicata) dove si trova il maggior giacimento dell'europa continentale. Una valle a vocazione rurale e turistica divenuta di colpo la Lucania Saudita, che dopo 15 anni di estrazione sconta un processo di impoverimento economico e sociale e di progressiva contaminazione ambientale attendendo politiche di sviluppo locale mai partite e sopravvivendo tra circa 40 pozzi perforati e un centro oli enorme (un secondo è in costruzione da parte di Total) di cui l'Eni ha intenzione di raddoppiare in tempi brevi la produzione.

Lo stesso vale per i nuovi fronti estrattivi off shore in prospezione, che pretendono di bucherellare quanto prima alcune tra le coste più belle del nostro paese: nell'Adriatico come nello Ionio a opporvisi è il coordinamento nazionale No Triv che raccoglie diversi comitati territoriali di più regioni italiane.

Obiettivo: fare della zona sud del paese, e della Lucania in particolare, snodo nevralgico dell'Hub italica del gas, crocevia di gas estratto in nord africa come in Russia e in Europa dell'est.

Su alcuni dei principali fronti di conflitto ambientale aperti in Italia dalle attività dell'Eni (Val D'Agri, Taranto, Porto Marghera, Priolo), A Sud e il CDCA hanno realizzato, nell'ambito del progetto europeo EJOLT, un report monografico che racconta origine, impatti, resistenze sociali e proposte di gestione alternativa delle risorse nate attorno ai singoli casi. Il Report sarà tradotto in italiano e disponibile sul sito www.asud.net nel mese di giugno.

Elemento connesso è la scelta (operata per garantire, dicono, autosufficienza energetica al paese) per cui l'Eni ha firmato anni fa con la Russia i cosiddetti contratti take or pay (rinegoziati nella durata ma non nel prezzo nel 2007) con durata pluridecennale, che prevedono una determinata quantità di fornitura di gas, da pagare anche in caso di mancato ritiro. Grazie anche a questo infelice accordo, in Italia il gas costa circa il 30% in più che nel resto d'Europa. Un prezzo che non aiuta le nostre imprese ad essere competitive. E non basta: a ottobre scorso la candida richiesta al governo di coprire parte del costo dell'operazione (1,5 miliardi) attraverso aggravi in bolletta.

Oltre che in Italia l'Eni lavora come accennato in decine di paesi, promuovendo un modello che - ben lungi dall'immagine di responsabilità sociale che il colosso si sforza di dare nelle pubblicità - è spesso basato su ipersfruttamento delle risorse e mancanza di politiche di tutela ambientale e delle comunità residenti.

Tra essi la regione Amazzonica in Sud America, o il delta del fiume Niger in Nigeria (a tal proposito si veda la scheda di conflitto ambientale sul Niger Delta realizzata dal CDCA - Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali) : territori gravemente contaminati che minacciano la sopravvivenza di migliaia di comunità rurali e indigene. In Nigeria, per esempio, l'ufficio legale di Era, Environmental Right Action denuncia ancora oggi l'utilizzo di pratiche devastanti (e vietate dalla legge) come il gas flaring.

Cose di cui si sa molto poco da noi. Del resto, l'Eni spende oltre 200 milioni di euro l'anno in budget di comunicazione. Inserzioni pubblicitarie elargite ai principali media, e una serie piuttosto lunga di giornalisti a libro paga. Mentre chi osa fare un lavoro di inchiesta vero subisce intimidazioni di vario genere: basti pensare ai 25 milioni di euro chiesti dall'impresa a Report, la trasmissione d'inchiesta di Rai3 che ha dedicato nel dicembre scorso una lunga inchiesta agli affari dell'Eni. Sul tema Change.org ha lanciato una petizione a difesa del diritto di informazione.

Ma quello della comunicazione non è l'unica voce di spesa esorbitante. L'attuale Ad di Eni, Scaroni, nel 2011 guadagnava quasi 5 milioni di euro (più del doppio rispetto a quanto percepiva il suo predecessore, Mincato, nel 2005). Uno stipendio in continuo ed inesorabile aumento mentre con l'altra mano l'Eni chiede aiuto allo Stato per far fronte alla crisi della raffinazione e sostegno all'Inps per la mobilità dei suoi operai.

In un momento di forte crisi è comprensibile che la più grande e redditizia impresa italiana piuttosto che aiutare il paese chieda a sua volta aiuto?

Sarà questo uno dei temi dell'assemblea 2013 che riunisce oggi venerdì 10 maggio a Roma, in un blindato palazzo di vetro, gli azionisti del colosso petrolifero. Una assemblea nella quale, secondo le rappresentanze sindacali interne, verrebbe consolidata la volontà di un disimpegno dell'Eni sul fronte italiano in termini di lavoratori, soprattutto nel settore della raffinazione. Lavoratori nel frattempo sul piede di guerra, per le condizioni previste dal nuovo contratto nazionale energia e per la minima parte di investimento destinata nel prossimo quadriennio alle attività in Italia.

A fare da corredo al quadro c'è la cronaca giudiziaria: l'esplosione nel febbraio scorso del caso delle presunte tangenti in Algeria che ha coinvolto diversi dirigenti Saipem e i vertici Eni, tra cui Scaroni, indagato per corruzione internazionale.

Eni's way insomma, il lemma coniato dall'impresa per rivendicare un modello diverso e impeccabile di fare le cose, è tutt'altro che un modello da seguire. 

Nessun commento:

Posta un commento