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mercoledì 2 maggio 2012

I: Iran, così Obama e Khamenei dirigeranno il nuovo concerto mediorientale//////corriereweb.net///////

IMPORTANTISSIME CONSIDERAZIONI CHE VANNO COMMENTATE.La geopolitica vuole che le potenze si confrontino e si incontrino sulla base della loro effettiva potenza.Se Obama decide di stringere relazioni con Teheran significa che ha preso atto che questa potenza, già forte PRIMA, diventando una potenza NUCLEARE,ha perso la connotazione di nazion e di terzo ordine, diventando NAZIONE DI PRIMA GRANDEZZA, con la quale occorre trovare elementi di COLLABORAZIONE. ANCHE IN SENSO ANTI SIONISTICO ( asfissiante Lobby ebraica in USA). Esiste tuttavia anche una pressione saudita che deve essere ridimensionata. PERCHE'? 1) I Sauditi stanno per perdere la loro partita in Arabia. 2) I Sauditi non possono continuare a rompere le uova nel paniere in tutto il Vicino e Medio Oriente. Gli arabi nOn li sopportano più. Giustamente Washington li deve mollare, a meno che: un salutare attentato non tolga di mezzo OBAMA.(Questo è il classico CLIMA che determina gli attentati!) GV.

----- Messaggio inoltrato -----
Da: Giuseppe Magliacane <giuseppemagliacane@hotmail.com>
A:
Inviato: Mercoledì 2 Maggio 2012 22:22
Oggetto: Iran, così Obama e Khamenei dirigeranno il nuovo concerto mediorientale//////corriereweb.net///////

Iran, così Obama e Khamenei dirigeranno il nuovo concerto mediorientale ///////// Scritto da Daniele Santoro/////////
L'intesa tra il presidente Usa e la Guida suprema della Repubblica islamica, che potrebbe materializzarsi dopo le presidenziali americane, cambierebbe radicalmente gli equilibri del sistema di potenze mediorientale. La strategia basata sulla coalizione a quattro contro l'Iran non regge. Teheran è la chiave per ricondurre nei ranghi Turchia ed Egitto e ridurre l'influenza nefasta di Israele. Obama è consapevole che per cambiare il Medio Oriente serve una mossa che faccia crollare rendite geopolitiche consolidate.
Iran, così Obama e Khamenei dirigeranno il nuovo concerto mediorientale



L'accordo tra Stati Uniti e Iran del quale abbiamo parlato nell'ultimo post di questa rubrica non cambierebbe d'un sol colpo la natura della relazione tra i due paesi, che continuerà a rimanere caratterizzata da una sana rivalità geopolitica. L'intesa Obama-Khamenei non ha l'obiettivo di forgiare un'improbabile alleanza tra Washington e Teheran, ma di riconoscere che Stati Uniti e Iran hanno diversi interessi in comune e che una cooperazione informale in alcuni quadranti geopolitici può produrre benefici per entrambe le potenze. Dal punto di vista della Casa Bianca, in particolare, un accordo onnicomprensivo con la Repubblica islamica si rivelerebbe assai proficuo tanto da un punto di vista geostrategico quando sotto il profilo geoenergetico.

Come ha fatto notare John C. Hulsman in un articolo pubblicato su Limes lo scorso luglio, il Medio Oriente attuale presenta non poche analogie con l'Europa metternichiana. A contendersi il dominio sulla regione sono infatti cinque potenze nessuna delle quali, singolarmente, è in grado di prevalere sulle altre: Turchia, Iran, Israele, Egitto e Arabia Saudita. "La matematica di un Medio Oriente bismarckiano (o metternichiano, ndr) con cinque superpotenze – scriveva Hulsman – è semplice, quanto spietata: prova a conquistarne almeno tre e la partita sarà tua". Ciò che non convince dell'analisi di Hulsman è la conclusione. Secondo quest'analista, infatti, gli Stati Uniti possono contare sulla potenziale alleanza con Turchia, Egitto e Arabia Saudita. Il che, se unito alla "relazione speciale" con Israele, produce il "migliore degli scenari possibili" per Washington: "Un Medio Oriente in cui quattro potenze sono più o meno saldamente schierate con l'America contro l'Iran".

La strategia di Barack Hussein Obama II, in realtà, potrebbe essere molto diversa e puntare all'en plein. Il punto centrale della questione, infatti, è che la geopolitica americana post-Camp David, basata sull'asse di ferro con Israele e sull'alleanza con i regimi arabi cosiddetti "moderati" (principalmente Egitto e Arabia Saudita, così definiti perché adusi a prendere ordini, soldi e armi da Washington) è stata un fallimento completo. Se nel 1978 gli Stati Uniti dominavano il Medio Oriente, oggi contano quasi nulla. Obama è dunque consapevole del fatto che è necessario uno scatto di reni, perché la strategia basata sull'alleanza con le quattro superpotenze di cui parla Hulsman è piuttosto traballante. La Turchia, negli anni scorsi, ha dato prova di non tenere in grande considerazione quel che viene deciso a Washington.
L'Egitto è impegnato in una difficile transizione che potrebbe portare al potere forze politiche ostili agli Stati Uniti. Israele è pervaso da una "sindrome irrimediabilmente autodistruttiva" (così l'ha definita il generale Fabio Mini) che minaccia seriamente gli interessi americani in Medio Oriente. L'Arabia Saudita, infine, è sempre sull'orlo di una crisi di nervi a causa delle faide interne per la successione a re Abdullah, gravemente malato. Della possibile implosione del gigante saudita si parla poco, ma e un'eventualità piuttosto concreta.

In questo contesto, l'intesa Obama-Khamenei consentirebbe in primo luogo agli Stati Uniti di ricondurre nei ranghi, quantomeno parzialmente, i due alleati più riottosi, Egitto e Turchia. Per quanto riguarda la Turchia, già oggi
l'Iran costituisce un valido contrappeso alle ambizioni neo-ottomane di Ankara, così come quest'ultima rappresenta un ostacolo ai sogni egemonici degli ayatollah. Insomma, il sultano e lo scià si controllano a vicenda. Reintroducendo Teheran nel salotto buono del concerto mediorientale, però, gli Stati Uniti disporrebbero di una carta in più, potendo decidere di sostenere la potenza che di volta in volta è più debole e mantenere così in equilibrio il rapporto di forze nel quadrante nord del Medio Oriente. Se non è un jolly, poco ci manca. D'altra parte, un riavvicinamento sia pur impercettibile tra Washington e Teheran permetterebbe agli Stati Uniti di gestire con più tranquillità la transizione egiziana. Ciò che tormenta i sonni dei decisori politici statunitensi è infatti la possibilità che tale transizione possa produrre un asse anti-americano Il Cairo-Teheran. Anche qui, la soluzione migliore non è cambiare le carte della politica egiziana, ma le incognite dell'equazione regionale.

Delle ripercussioni di un eventuale accordo Usa-Iran su Israele e sulla "relazione speciale" Washington-Gerusalemme si è già detto
nell'ultimo post. La più importante è senza dubbio il fatto che gli Stati Uniti recupererebbero buona parte del loro potere decisionale in Medio Oriente, negli ultimi anni di fatto subappaltato allo Stato ebraico. Questo sarebbe il presupposto indispensabile per costringere Netanyahu o chi per lui (considerando le dinamiche che coinvolgono la politica israeliana l'attuale primo ministro può essere considerato un "moderato") a sedersi sul serio al tavolo negoziale con i palestinesi. Obama, non è un mistero, vuole lasciare un segno nella storia. E questo segno è l'accordo di pace arabo-israeliano. È una missione quasi impossibile, per questo è necessaria una mossa che sparigli tutto e faccia crollare certezze e rendite geopolitiche consolidate. E i sauditi? Per loro sembra mettersi veramente male, se persino un autore generalmente equilibrato come Abdul-Malik Ahmad Al-Sheikh non trova di meglio che lanciare improbabili accuse contro la lobby iraniana (che invero può difficilmente competere contro quelle ebraica e saudita) per spiegare i cambiamenti che si cominciano ad avvertire nelle relazioni tra Washington e Teheran.

Nel prossimo post di
questa rubrica analizzeremo le ripercussioni geoenergetiche di un eventuale accordo Obama-Khamenei sullo scacchiere centrasiatico.
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